giovedì 11 marzo 2010

Io penso positivo perché son vivo...

La natura sembra averci predisposto a essere riduzionistici in un senso più ottimistico che pessimistico, anche al prezzo di barare un poco. L’operatore decisionale che è in noi sembra rispondere solo parzialmente a dei criteri di scelta logici. Recenti studi sul funzionamento del ragionamento umano hanno rilevato che a fronte dello spettro complessivo delle possibilità ipotizzabili, di norma si producono dei modelli mentali probabilistici incompleti a partire dai soli casi positivi, escludendo di fatto di dare lo stesso rilievo anche a quelli negativi oppure a quelli non veri. Tali modelli sono strutturati più a partire da delle conoscenze regresse e da delle visioni del mondo precedentemente formulate, piuttosto che da elaborazioni prospettiche nuove, enormemente costose e impegnative. Per Johnson-Laird, tale semplificazione è un dazio che dobbiamo pagare per uno sviluppo della nostra specie relativamente giovane. A fianco del ragionamento cosciente, un ruolo fondamentale lo svolgono anche le emozioni. In particolare, intervengono nel modulare le strategie di evitamento o di scelta, provocando fluttuazione non lineari dell’attribuzione di valore. Ad esempio secondo parametri spaziali (Dollard-Miller) o temporali (Elster). Mentre in caso di obiettivi paritetici, ci predispone a prestare maggiore attenzione alle eventuali mete frustranti, come magari una perdita, a differenza, invece, di quelle in cui si prospetti un guadagno (Kahneman-Tversky). Per alcuni, le emozioni sono un tentativo implicito e economico di trasformazione del mondo. “Quando le vie tracciate diventano troppo difficili o quando non scorgiamo nessuna via, non possiamo più rimanere in un mondo così pressante e così difficile. Tutte le vie sono sbarrate, eppure bisogna agire. Allora tentiamo di cambiare il mondo; cioè di viverlo come se i rapporti delle cose con le loro potenzialità non fossero regolati da processi deterministici, ma dalla magia”. [...] Il ricorso alla magia è importante: per Sartre, tutte le emozioni “concorrono alla costituzione di un mondo magico, utilizzando il nostro corpo come mezzo d’incanto” (p. 63, Berthoz 2004). Questo tipo di coinvolgimento basale nelle nostre decisioni coscienti, Damasio lo avrebbe successivamente espresso attraverso l’ipotesi del marcatore somatico. Gargani, in linea con tutta la scuola analitica, avrebbe preferito la metafora del filtro creativo. Secondo Berthoz il cervello va concepito “come una parte del mondo, che ne ha interiorizzato le proprietà, ne emula alcune, ma riferendole ai propri fini, un cervello che costruisce la realtà esterna proiettando in essa le percezioni, i desideri, le intenzioni. Esso semplifica il mondo in funzione delle proprie scelte, percepisce soltanto quello che vuole percepire” (ibidem, p. 370). Oggi, in vari ambiti psicologici, si parlerebbe di whishfull thinking o anche di effetto fraiming o volendo di dissociazione parziale dalla realtà, come se si fosse tutti, chi più chi meno, un po’ psicotici. D’altronde se si dovessero tenere conto di tutte le possibilità concepibili, sia quelle positive che negative, per la nostra memoria di lavoro l’elaborazione dell’informazione sarebbe un compito arduo se non impossibile e comunque non adeguato alle necessità dettate dall’istinto alla sopravvivenza. Spesso abbiamo bisogno di affidarci a delle risposte immediate, quasi automatiche, senza avere la possibilità di porre i nostri pensieri al vaglio di una ulteriore costosa verifica. Il pensiero controfattuale, necessario per smascherare impietosamente le nostre semplificazioni e i nostri presupposti errati, non è di facile dominio e accesso per tutti. Esso richiede uno sforzo e una abilità non comuni, magari raggiungibile previa un serrato allenamento e una conoscenza riflessiva delle procedure inferenziali utilizzate spesso implicitamente. E tutto ciò non sarebbe comunque ancora sufficiente senza una adeguata conoscenza e gestione dell’emotività. Insomma, nonostante siamo mediamente in grado di mettere in atto delle strategie logiche più o meno funzionali, il nostro pensiero sembra più strutturato per seguire delle credenze, dei presentimenti o delle intuizioni implicite solitamente veritieri, anche se spesso fuori della nostra portata critica cosciente. Come se si fosse naturalmente predisposti a una cecità adattiva responsabile di una serie di inferenze illusorie senza le quale la vita apparirebbe molto più problematica di quello che normalmente ci è permesso immaginare e soprattutto sopportare. Di cosa si avrebbe bisogno per ragionare meglio? “Di una memoria di lavoro più capace e forse anche di processi mentali più rapidi”. Si dovrebbe migliorare inoltre “nel comprendere le premesse, nel tener conto di tutte le possibilità compatibili con le premesse, nel formulare conclusioni che colgano ciò che quelle possibilità hanno in comune, nel ricercare controesempi delle conclusioni. E abbiamo bisogno di più immaginazione per vedere, con l’occhio della mente, ciò che è possibile” (p. 398, Johnson-Laird 2008). Ma siamo già oltre la scienza e più nella fantascienza.

domenica 7 marzo 2010

Scienza decisione - L’architettura cerebrale. La codifica multipla dell’informazione

Secondo Antonio Damasio, “in condizioni normali, il processo decisionale si serve di due vie complementari. Di fronte a una situazione che richiede una risposta, la via a induce immagini riferite alla situazione, alle possibili opzioni, e alle anticipazioni dei loro esiti futuri. Le strategie di ragionamento possono operare su quella conoscenza e produrre una decisione. La via b opera in parallelo, e induce l’attivazione di esperienze emozionali vissute precedentemente in situazioni paragonabili. Successivamente, il richiamo del materiale emozionalmente collegato, implicito o esplicito che sia, influenza il processo decisionale costringendo l’attenzione ad appuntarsi sulla rappresentazione degli esiti futuri o interferendo con le strategie di ragionamento. In qualche caso, la via b può portare direttamente a una decisione, come quando una sensazione viscerale stimola una risposta immediata. In quale misura ciascuna delle due vie sia usata da sola o in combinazione con l’altra, dipende dallo sviluppo individuale di una persona, dalla natura della situazione, dalle circostanze” (p. 182, Damasio 2003).
Lo schema sopradescritto parte dall’ipotesi dell’esistenza di due modalità distinte di processazione dell’informazione. La prima più veloce, economica, inconscia e semi automatica, si appoggia più su delle memorie valoriali e procedurali implicite precostituite di facile accesso. La seconda, più lenta, richiede anche l’ausilio della coscienza, generando una visione panoramica prospettica sempre più astratta e meno legata all’esperienza passata o al contesto presente. In situazioni normali, le decisioni sembrano essere più il frutto di lampi intuitivi basati su emozioni e processi inferenziali di categorizzazione dell’esperienza, spesso completamente schermati dai processi coscienti. Così, non è infrequente conoscere i principi e le motivazioni soggiacenti dietro le proprie decisioni solo a posteriori, a cose già fatte. Inoltre, avendo più strade perseguibili in parallelo non di rado, si può entrare in una situazione di conflitto motivazionale. Spesso, infatti, possono crearsi delle idiosincrasie tra i motivi basali rispetto ad esempio quelli preventivati razionalmente. Tali conflitti sembrano essere una conseguenza del fatto che il sistema cerebrale è un sistema modulare strutturato per processare in parallelo l’informazione, senza avere però un controllore forte, capace di dirimere le differenze valoriali definite localmente. Sembra piuttosto essere l’architettura del sistema nel suo insieme a appianare e risolvere in qualche modo le conflittualità e a stabilire quale ordine decisionale processare. Così, si potrebbe parlare di un modello generalmente eterarchico moderatamente gerarchico, poiché non tutti i livelli hanno lo stesso peso, nel senso che alcuni hanno maggiore influenza rispetto ad altri. Questa architettura non risolve i problemi di intrattabilità, ma permette al cervello di elaborare più informazione di quanta ne possa accogliere la memoria di lavoro (MdL), senza la quale non sarebbero possibili le rappresentazioni coscienti del mondo e di se stessi. Infatti il controllore cosciente per svolgere tale ruolo deve essere in grado di produrre modelli della totalità del sistema, modelli mentali però che non potranno essere che incompleti, come abbiamo visto. Anche perché una serie di processi di elaborazione cognitiva, oltre che tutte le risposte emotive basali sono al di sotto del suo controllo e del tutto schermati dalla coscienza. Vi sono comportamenti involontari, come arrossire, sorridere, volgere l’attenzione verso qualcosa d’improvviso che possono insorgere a nostra insaputa. È anche per questo motivo che spesso la volontà cosciente è in conflitto con questi comportamenti impliciti.
In particolare, un primo sistema cognitivo inferenziale prevalentemente inconscio (vedi a.1) sembra essere alla base di presentimenti, intuizioni, reazioni viscerali, congetture, illuminazioni, capaci di generare nel loro insieme conclusioni approssimative in cui non è dato conoscere introspettivamente le premesse da cui derivano. Infatti, “i processi non coscienti non possono usare la memoria di lavoro, e quindi la potenza computazionale su cui possono contare per elaborare tutte le informazioni è modesta” (p. 97, Johnson-Laird 2008).
Un secondo centro emotivo (b) implicito è deputato a:
1) modulare delle risposte motorie immediate grazie a delle memorie passate abbastanza semplici, attivate all’interno di processi cerebrali più profondi e primitivi (situati ad esempio tra il talamo e il troncoencefalo, come i nuclei ipotalamici, l’amigdala, etc.);
2) predisporre il corpo a compiere un’azione;
3) modulare l’attenzione selettiva;
4) influenzare le procedure inferenziali cognitive tramite agili memorie emotive precedentemente acquisite. Tale meccanismo è utile soprattutto nel segnare visceralmente opzioni riguardo a previsioni su intenzioni procedurali inizialmente solo simulate a livello di mappe rappresentazionali (come il marcatore somatico di Damasio) e nei processi impliciti di immedesimazione empatica (come nei circuiti imitativi di Gallese e di Senigallia).
Per ultimo, anche da un punto di vista ontogenetico, esiste poi un centro cognitivo cosciente (a.2) capace di inferenze razionali complesse a partire da premesse coscienti. Esso richiede l’utilizzo della memoria di lavoro ed è responsabile delle mappe mentali vere e proprie. Rielaborando creativamente tutti i pensieri primari arrivati a superare la soglia cosciente, riesce a produrre modelli di previsioni future complesse, staccandosi dal contesto immediato. È a questo livello che sembra innescarsi il “film della mente”.


a.1) Il pensiero intuitivo
Secondo l’architettura mentale ipotizzata da Johnson-Laird, “le inferenze possano avere inizio in forma cosciente e incosciente. Le inferenze consce non sono mai del tutto consce. Non possiamo accedere per introspezione ai processi che collegano le premesse alle conclusioni: se fosse possibile, questi processi non avrebbero nulla di misterioso. Tuttavia, le inferenze consce possono usare la memoria di lavoro per conservare i risultati delle computazioni intermedie. Congetture, presentimenti e intuizioni, invece, sono il risultato di inferenze inconsce, che l’impossibilità di usare la memoria di lavoro rende approssimative e grossolane. Il sistema inconscio segue transizioni sulla base di principi superficiali. [...] Si tratta di giudizi rapidi e persuasivi (p. 115, Johnson-Laird 2008), anche se sospetti. Questi principi sono alla base di associazioni libere, transizioni che dipendono più dal contenuto. Vanno insomma a collegare categorie semantiche simili, anche se non immediatamente, influenzando i nostri pensieri inconsci e le stesse prestazioni della mente, a seconda del loro valore emotivo positivo o meno. Esse si svolgono da una singola conclusione a un’altra, passo dopo passo, in un fluire di associazioni che possono essere semplici attribuzioni di proprietà o istruzioni per l’uso. Riferite però a stati mentali strettamente collegati al contesto presente. Tali contenuti sono desunti a loro volta alla memoria a lungo termine, nel senso che esse fanno riferimento principalmente a categorizzazioni dell’esperienza passata, precedentemente immagazzinate implicitamente. Non potendo far uso della memoria di lavoro, non potranno compiere relazioni complesse tra più entità distinte e semanticamente lontane, non sapranno contare se non per piccoli numeri, cioè non potranno stabilire nessi di dipendenza a lungo raggio. Il ragionamento inconscio appena visto si basa su una serie di principi causali quali:
1) ogni evento ha una causa
2) gli oggetti in movimento sono cause
3) esseri umani e animali possono porre in essere cause
4) le cause implicano un contatto fisico con gli effetti
5) cause simili hanno effetti simili
Tali vincoli euristici, necessari per semplificare al massimo le conclusioni induttivo-inferenziali, possono essere considerati essere alla base di quello che gli antropologi chiamavano pensiero magico”. Esso genera spesso concezioni erronee della causalità dando adito per esempio alla superstizione per contagio o per somiglianza a distanza, due principi casuali evidentemente in contrasto tra loro. Ma ciò non sembra fare problema, almeno non più di tanto.
 
a.2) Il pensiero deduttivo e induttivo cosciente e i modelli mentali
Le inferenze cognitive coscienti sono delle ri-rappresentazione di precedenti modelli inferenziali ideoaffettivi basali sorti più o meno implicitamente che hanno superato la soglia cosciente. Secondo la logica mentale, esse erano in grado di computare due tipi di operazioni, le inferenze proposizionali deduttive o sillogismi e quelle induttive. Tali modelli teorici, come abbiamo precedentemente visto sono stati profondamente rimessi in discussione. Ponendo l’attenzione non solo sull’aspetto formale, grammaticale delle proposizioni, i modelli mentali hanno ipotizzato che anche “il significato e le conoscenze generali possono modulare l’interpretazione dei connettivi preposizionali. Possono bloccare la costruzione del modello di una possibilità. Possono aggiungere informazioni a un modello - ad esempio una relazione temporale. E possono facilitare la costruzione di modelli completi. I primi due effetti aggiungono informazione: i modelli contengono più informazione di quella contenuta nel significato delle premesse, e questa informazione è portata dalle nostre conoscenze. Perciò, quando deriviamo una conclusione da modelli così creati, andiamo oltre l’informazione contenuta nelle premesse letteralmente intese: facciamo un’induzione, piuttosto che una deduzione. Il terzo effetto fa sì che le inferenze tengano conto di informazioni che sono presenti nelle premesse ma che spesso trascuriamo” (p. 241, Johnson-Laird 2008). Un’induzione è, riprendendo il lessico filosofico, un giudizio sintetico. Il valore veritativo delle sue conclusioni non dipende solo da quello inferito formalmente dalle premesse iniziali, ma anche dall’esperienza, cioè dal contenuto, dalla semantica e dalla pragmatica, cioè dall’influenza del contesto, in particolare delle regole sociali condivise presussistenti utilizzate. Questa è una conseguenza del fatto che di norma le nostre conclusioni non derivano da delle deduzioni in cui è possibile reperire tutte le informazioni necessarie e sufficienti per raggiungere un sapere certo, cioè completo. Pur avendo tutto il tempo a disposizione, una volta esplicitata la forma logica, ovvero sintattica di tutte le possibili relazioni inferibili dalle proposizioni di partenza non è comunque possibile dimostrare per sempre ciò che è vero da ciò che falso (vedi il fallibilismo di Popper). I nostri ragionamenti non potrebbero essere insomma solo dipendenti dalla logica deduttiva, ma risponderebbero a un modo di inferire conclusioni e decisioni che si addicono più a una sapienza che gli antichi filosofi definivano pratica, la phronesis, intimamente volta a cogliere la migliore opportunità possibile a partire dagli strumenti limitati a disposizione in un dato momento presente (kairos). Oggi diremmo che tale forma sapienziale si avvicina a un ragionamento paragonabile a quello induttivo pragmatico. In cui le conclusioni vanno oltre l’informazione data ma, allo stesso tempo, escludono più possibilità di quante non escludano le premesse da cui derivano. Nello specifico sembra si traggono conclusioni parsimoniose scegliendo però solo quelle capaci di verificare positivamente le premesse tramite la costruzione di modelli mentali prevalentemente iconici, ma non solo. Cioè si trae conclusioni a partire da delle premesse magari le più probabili o semplicemente conosciute in precedenza o al limite perché intuite implicitamente, scartando di conseguenza tutto il resto. Così, la verità non nasce affatto come effetto residuale di tutte le falsificazioni possibili inferibili, come pretenderebbe la logica mentale, ma solo dalle condizioni di possibilità e di esistenza, nel migliore delle ipotesi solo probabili. Il pensiero induttivo è un ragionamento propositivo economico, capace di trovare delle scorciatoie significative modulate dal contenuto semantico oppure da pregresse memorie emotivo-affettive (b). Solo in questo modo sembra sia possibile operare delle riduzioni consistenti sulla massa preponderante di informazioni che ci provengono dall’esperienza. Pena il caos, l’intrattabilità dell’informazione e, da ultimo, le chance di sopravvivenza stessa. Di conseguenza, non è dato trovare lungo il cammino la verità già bellefatta o comunque inferibile tramite i soli strumenti logici. Piuttosto la si emula ricostruendola a partire da delle conoscenze immagazzinate sempre approssimative, cioè la si interpreta, spesso inventandola verosimilmente quando vengono a mancare le informazioni di senso compiuto. Magari deducendo nuove cause non direttamente riconducibili dalle premesse oppure ricavandole da simili, o anche compiendo delle analogie creative in quel momento funzionali e via dicendo. Se la logica mentale aveva provato a prendere le distanze dai contenuti semantici specifici e dalla psicologia individuale, secondo i modelli mentali di Johnson-Laird non si può prescindere dalle variabili soggettive, motivazionali, contestuali. Insomma “le conoscenze prevalgono sul principio di verità” (p. 240, Johnson-Laird 2008). Quando ragioniamo assumiamo che vi sia uno sfondo di conoscenze e di credenze generali condivise o meno su particolari situazioni le quali inevitabilmente modulano le nostre conclusioni. Rimane il fatto che per la loro natura riduzionistica, tali conoscenze non sono statiche, ma vengono continuamente sottoposte a ristrutturazione cognitiva per esempio imposta da un’esperienza controfattuale, capace di falsificare le nostre precedenti credenze. Oppure semplicemente perché si vuole rispondere a dei criteri veritativi più approfonditi. Cioè si sottopone il proprio pensiero a una verifica più esaustiva. In questo modo a partire da conoscenze parziali è possibile anche il processo inverso, cioè la possibilità di sviluppare circoscritti modelli completi manipolabili mentalmente.
 
b) Il filtro emotivo e i presentimenti
Rispetto i modelli cognitivi elaborati verso la seconda metà del novecento che avevano come oggetto di studio soltanto un operatore cognitivo, nella fine del secolo si è assistito a una rivalutazione del ruolo delle emozioni, grazie soprattutto alle ricerche sulla paura di LeDoux o all’ipotesi dei marcatori somatici di Damasio qui di seguito accennata. Così si è sottolineata l’importanza indiretta che le emozioni possono assumere anche nel lavoro di categorizzazione cognitiva della realtà. Se come ritiene la teoria comunicativa di Outley e Johnson-Laird, in parte ridimensionandone l’importanza, le emozioni possono sorgere soltanto a partire da una transizione inconscia originata dopo una prima, spesso approssimativa, valutazione cognitiva, eppure sono di riflesso responsabili di una serie di profondi cambiamenti nel nostro modo di pensare e di agire nel mondo. “Il segnale emozionale non è un sostituto del ragionamento vero e proprio, ma ha semplicemente un ruolo ausiliario, giacché ne aumenta l’efficienza e lo velocizza. In qualche caso, può renderlo quasi superfluo, come accade, per esempio, quando respingiamo immediatamente un’opzione che condurrebbe a un disastro sicuro o viceversa, cogliamo al volo una buona opportunità in base alla sua elevata probabilità di successo. In alcuni casi il segnale emozionale può essere molto forte, e condurre alla parziale riattivazione di emozioni come la paura e la felicità, seguite dal sentimento cosciente appropriato di quella particolare emozione. È questo il presunto meccanismo della percezione viscerale, che utilizza quello che ho definito circuito corporeo. D’altra parte, i segnali emotivi possono funzionare anche in modo più sottile, e presumibilmente, nella maggior parte dei casi, è così che svolgono la loro funzione. In primo luogo è possibile produrre percezioni viscerali senza usare davvero il corpo, ma attingendo dal circuito come sé. In secondo luogo, poi, c’è un fatto più importante, e cioè che il segnale emozionale può operare interamente al riparo dal radar della coscienza. Può produrre alterazioni nella memoria operativa, nell’attenzione e nel ragionamento, così che il processo decisionale sia orientato verso la scelta dell’azione che, sulla base dell’esperienza precedente, ha maggiore probabilità di condurre al migliore esito possibile. L’individuo può anche non avere cognizione di queste operazioni implicite. In tali condizioni, noi intuiamo una decisione e la mettiamo in atto, in modo rapido ed efficace, senza avere alcuna conoscenza dei passaggi intermedi. Il nostro gruppo di ricerca, insieme ad altri, ha accumulato dati sostanziali a conferma di tali meccanismi. Il loro legame con il corpo è noto da secoli al buon senso comune. Spesso ci riferiamo ai presentimenti che orientano nella giusta direzione il nostro comportamento come ai visceri o al cuore. [...] L’idea che le emozioni siano intrinsecamente razionali, sebbene si sia mantenuta marginale, ha una lunga storia (p. 180-81, Damasio 2003).
Per Berthoz, appoggiandosi a Sartre, l’emozione è come un tentativo di trasformazione del mondo. “Quando le vie tracciate diventano troppo difficili o quando non scorgiamo nessuna via, non possiamo più rimanere in un mondo così pressante e così difficile. Tutte le vie sono sbarrate, eppure bisogna agire. Allora tentiamo di cambiare il mondo; cioè di viverlo come se i rapporti delle cose con le loro potenzialità non fossero regolati da processi deterministici, ma dalla magia”. [...] Il ricorso alla magia è importante: per Sartre, tutte le emozioni “concorrono alla costituzione di un mondo magico, utilizzando il nostro corpo come mezzo d’incanto”, [come filtro creativo] (p. 63). Berthoz concepisce “il cervello come una parte del mondo, che ne ha interiorizzato le proprietà, ne emula alcune, ma riferendole ai propri fini, un cervello che costruisce la realtà esterna proiettando in essa le percezioni, i desideri, le intenzioni. Esso semplifica il mondo in funzione delle proprie scelte, percepisce soltanto quello che vuole percepire. Ad esempio, crea una serie di regolarità negli stimoli del caso. Questa individuazione di regolarità è obbligata e non cosciente, visto che non implica nessuno sforzo di attenzione. [...] L’emozione, in questo approccio, interviene aggiungendo come prevede la teoria dei marcatori somatici di Damasio un valore, nel senso più ampio della parola, a questa percezione ricostruita. [...] L’emozione in particolare attiverebbe i meccanismi dell’attenzione selettiva, sarebbe un filtro percettivo. [...] Per contrasto, le vie corte scoperte da LeDoux consentono di innescare velocemente un repertorio di comportamenti essenziali per la sopravvivenza  come la fuga, l’aggressione, la sottomissione. [...] Il cervello avrebbe dunque a disposizione almeno due meccanismi, apparentemente molto differenti. Uno, comparso presto nel corso dell’evoluzione e legato alla sopravvivenza, è rapido. In questo caso la decisione è il frutto di una cooperazione stretta e obbligata tra l’emozione e la percezione. [...] L’altro è comparso più tardivamente nell’evoluzione. Presuppone una complessa elaborazione delle informazioni dei sensi, ma, soprattutto, è la proiezione delle intenzioni, dipende dal passato, dalla storia dell’individuo e dal gruppo sociale, dalla cultura (p. 370 e seguenti, Berthoz 2004).
 
4) Effetti collaterali
Stando a quanto detto fin ora sembra che il nostro pensiero sia predisposto a credere e a illudersi, come ci dice anche il testo “Nati per credere” di tre eminenti divulgatori scientifici italiani.
Non riusciamo a essere obiettivi, anzi siamo naturalmente portati a postulare “inferenze illusorie” sulla realtà influenzati dal nostro desiderio (confronta ad esempio il wishfull thinking e la prospect theory), anche per la complicità dell’intrattabilità dei dati da gestire e processare (problema del canale unico e dei limiti intrinseci della memoria di lavoro). Le nostre previsioni non sono orientate alla massima utilità rispetto ai mezzi a disposizione. Un po’ psicotici per costituzione proviamo sistematicamente a forzare i limiti che ci si frappongono. E spesso senza capacitarci dei nostri insuccessi, un pò alla don Chichotte. Il filtro percettivo cognitivo-emotivo che da forma ai nostri pensieri è anche la chiave della nostra propensione creativa. Certo il limite tra il progettare ragionevole e il delirare è sempre precario. Eppure sembra essere un problema solo di memoria e di pensiero controfattuale. Di memoria, perché se ci si affida al nostro pensiero ideoaffettivo iinconscio, senza provare a dialogarci dall’alto, ci si affida a dei comportamenti molto primitivi quanto attaccati alla nostra esperienza pregressa se non istintiva. In fondo il senso comune si appoggia a questo tipo di comportamento e di sapere sociali prima definiti tendenzialmente magici. Si agisce cioè più per credenza e per imitazione, sperando poi che le cose funzionino in qualche modo. Rimane il fatto che a dispetto del programma freudiano di far subentrare l’IO al posto dell’ES, oggi la concezione dell’inconscio è notevolmente cambiata. Sappiamo che tutta una serie di processi non potranno forse mai essere compresi per la sola via introspettiva, mentre si sono ridimensionate sempre più le pretese capacità della coscienza di dirigere gerarchicamente baracca e burattini. Oggi facciamo i conti sempre più con questi limiti costitutivi. A questo punto come fare, come comportarci? Possiamo veramente adottare delle strategie intenzionali efficaci, nonostante tutto?

Scienza della decisione - Teorie normative e descrittive


Normalmente non sembra esserci una piena consapevolezza esplicita dei principi guida dell’agire. Tra il detto e l’agito, cioè tra le conoscenze procedurali implicite e il livello introspettivo cosciente si instaura spesso una incongruenza palese. “La discrepanza tra ciò che sappiamo e quel che facciamo è il paradosso fondamentale della razionalità. Da un lato siamo in grado di comprendere i principi della razionalità – i canoni della logica e del calcolo probabilistico. D’altro lato, non riusciamo a vivere alla loro altezza. La soluzione del paradosso è semplice: comprendere i principi è un problema trattabile, seguirli non lo è (p. 122, Johnson-Laird 2008). L’essere umano razionale è il risultato di un lungo processo adattivo che ha evidenziato però in termini prestazionali dei limiti strutturali e dei costi. Fino a poco tempo fa era prassi comune di buona parte delle impostazioni etiche e economiche moderne far derivare i loro assiomi affidandosi alle sole risorse di un operatore razionale capace di ricavare i principi guida dell’agire e della volontà a partire dalla massimizzazione dell’utilità e del valore atteso. Secondo queste teorie, la razionalità della decisione dipendeva dalla scelta migliore, quella ideale, desumibile esperienzialmente da indici statistici previsionali ritenuti tutto sommato controllabili. Così, tali valori ideali ricavati “scientificamente” si pensava potessero essere assunti anche come indici prescrittivi. Poi, però, per giustificare le idiosincrasie e gli errori di valutazione rilevati nelle scelte reali rispetto le attese previste, molte di queste teorie hanno dovuto postulare l’esistenza di un deficit volitivo residuale, non senza cadere però entro una certo paradossale autoreferenzialità. Tali contraddizioni erano più il frutto dell’idea, condivisa per circa duemilacinquecento anni da certo pensiero occidentale e di recente da una parte della psicologia cognitiva novecentesca, che il pensiero umano dovesse seguire le regole della logica formale e fosse relativamente poco influenzabile nei suoi risultati dagli effetti dovuti al contesto o al contenuto semantico delle proposizioni. Secondo tale logica definita mentale dovevano essere più rilevanti le relazioni formali, sintattiche e grammaticali rispetto a quelle dovute alla semantica o alla pragmatica. Accanto a queste teorie normative della scelta razionale si sono affiancate in seguito delle teorie più descrittive e meno impositive. Queste, in linea con un profilo meno prescrittivo, hanno preferito fondarsi più sulla constatazione empirica dell’andamento delle decisioni operate dagli individui reali, spesso esplicitamente in contraddizione con le aspettative dei modelli ideali appena menzionati. Vuoi perché nella realtà ci si trova ad affrontare situazioni in cui è difficile reperire tutte le informazioni necessarie per una scelta ponderata, vuoi perché lo stesso soggetto cade sistematicamente in errori di valutazione che lo sviano dai normali percorsi logici decisionali. Appurato che la soluzione migliore sembra essere difficilmente disponibile, si è piuttosto constato la prevalenza di strategie valoriali minimaliste in cui si preferisce arrivare a certi compromessi magari per alleviare la dissonanza cognitiva o lo stress decisionale. Se i modelli normativi tenevano in considerazione l’utilità o il valore atteso secondo dei riferimenti logici, ideali, i nuovi approcci descrittivi preferiscono prendere in considerazione altre modalità di categorizzazione e processazione dell’informazione basandosi più su dei modelli euristici caratterizzati da una razionalità debole. Questa nuova psicologia postmoderna ritiene che i processi inferenziali logici non sembrano essere una competenza immediata di facile acquisizione e utilizzo. Inoltre, richiedono spesso doti di concentrazione e uno sforzo mentale che difficilmente si addicono alla rapidità con cui vengono prese le decisioni quotidiane. Di fatto, nella realtà, ci si scopre essere influenzati più da una serie di parametri poco razionali, quali le credenze, le proprie emozioni, l’influenza del contesto, i desideri. Inoltre va aggiunto che, più delle volte, le informazioni per giungere a una scelta ponderata, oltre a essere limitate, sono anche ambigue percettivamente parlando. In questi casi, la categorizzazione della realtà presuppone necessariamente un elevato livello di interpretazione disambiguante fino a una vera e propria ristrutturazione creativa dei dati sensibili da parte di un osservatore esposto sia all’influenza delle regole sociali (vedi ad esempio la teoria dei giochi e anche l'influenza di una predisposizione naturale mimetica) che al proprio particolare variabile punto di osservazione (come rivelato ad esempio nei pionieristici esperimenti della psicologia gestaltica). Così, non ci può sottrarre dalla constatazione che qualsiasi decisione è frutto di un'operazione riduzionistica per questo esposta alla possibilità di andare incontro a frequenti errori (biases) di valutazione a volte anche grossolani.