giovedì 11 marzo 2010

Io penso positivo perché son vivo...

La natura sembra averci predisposto a essere riduzionistici in un senso più ottimistico che pessimistico, anche al prezzo di barare un poco. L’operatore decisionale che è in noi sembra rispondere solo parzialmente a dei criteri di scelta logici. Recenti studi sul funzionamento del ragionamento umano hanno rilevato che a fronte dello spettro complessivo delle possibilità ipotizzabili, di norma si producono dei modelli mentali probabilistici incompleti a partire dai soli casi positivi, escludendo di fatto di dare lo stesso rilievo anche a quelli negativi oppure a quelli non veri. Tali modelli sono strutturati più a partire da delle conoscenze regresse e da delle visioni del mondo precedentemente formulate, piuttosto che da elaborazioni prospettiche nuove, enormemente costose e impegnative. Per Johnson-Laird, tale semplificazione è un dazio che dobbiamo pagare per uno sviluppo della nostra specie relativamente giovane. A fianco del ragionamento cosciente, un ruolo fondamentale lo svolgono anche le emozioni. In particolare, intervengono nel modulare le strategie di evitamento o di scelta, provocando fluttuazione non lineari dell’attribuzione di valore. Ad esempio secondo parametri spaziali (Dollard-Miller) o temporali (Elster). Mentre in caso di obiettivi paritetici, ci predispone a prestare maggiore attenzione alle eventuali mete frustranti, come magari una perdita, a differenza, invece, di quelle in cui si prospetti un guadagno (Kahneman-Tversky). Per alcuni, le emozioni sono un tentativo implicito e economico di trasformazione del mondo. “Quando le vie tracciate diventano troppo difficili o quando non scorgiamo nessuna via, non possiamo più rimanere in un mondo così pressante e così difficile. Tutte le vie sono sbarrate, eppure bisogna agire. Allora tentiamo di cambiare il mondo; cioè di viverlo come se i rapporti delle cose con le loro potenzialità non fossero regolati da processi deterministici, ma dalla magia”. [...] Il ricorso alla magia è importante: per Sartre, tutte le emozioni “concorrono alla costituzione di un mondo magico, utilizzando il nostro corpo come mezzo d’incanto” (p. 63, Berthoz 2004). Questo tipo di coinvolgimento basale nelle nostre decisioni coscienti, Damasio lo avrebbe successivamente espresso attraverso l’ipotesi del marcatore somatico. Gargani, in linea con tutta la scuola analitica, avrebbe preferito la metafora del filtro creativo. Secondo Berthoz il cervello va concepito “come una parte del mondo, che ne ha interiorizzato le proprietà, ne emula alcune, ma riferendole ai propri fini, un cervello che costruisce la realtà esterna proiettando in essa le percezioni, i desideri, le intenzioni. Esso semplifica il mondo in funzione delle proprie scelte, percepisce soltanto quello che vuole percepire” (ibidem, p. 370). Oggi, in vari ambiti psicologici, si parlerebbe di whishfull thinking o anche di effetto fraiming o volendo di dissociazione parziale dalla realtà, come se si fosse tutti, chi più chi meno, un po’ psicotici. D’altronde se si dovessero tenere conto di tutte le possibilità concepibili, sia quelle positive che negative, per la nostra memoria di lavoro l’elaborazione dell’informazione sarebbe un compito arduo se non impossibile e comunque non adeguato alle necessità dettate dall’istinto alla sopravvivenza. Spesso abbiamo bisogno di affidarci a delle risposte immediate, quasi automatiche, senza avere la possibilità di porre i nostri pensieri al vaglio di una ulteriore costosa verifica. Il pensiero controfattuale, necessario per smascherare impietosamente le nostre semplificazioni e i nostri presupposti errati, non è di facile dominio e accesso per tutti. Esso richiede uno sforzo e una abilità non comuni, magari raggiungibile previa un serrato allenamento e una conoscenza riflessiva delle procedure inferenziali utilizzate spesso implicitamente. E tutto ciò non sarebbe comunque ancora sufficiente senza una adeguata conoscenza e gestione dell’emotività. Insomma, nonostante siamo mediamente in grado di mettere in atto delle strategie logiche più o meno funzionali, il nostro pensiero sembra più strutturato per seguire delle credenze, dei presentimenti o delle intuizioni implicite solitamente veritieri, anche se spesso fuori della nostra portata critica cosciente. Come se si fosse naturalmente predisposti a una cecità adattiva responsabile di una serie di inferenze illusorie senza le quale la vita apparirebbe molto più problematica di quello che normalmente ci è permesso immaginare e soprattutto sopportare. Di cosa si avrebbe bisogno per ragionare meglio? “Di una memoria di lavoro più capace e forse anche di processi mentali più rapidi”. Si dovrebbe migliorare inoltre “nel comprendere le premesse, nel tener conto di tutte le possibilità compatibili con le premesse, nel formulare conclusioni che colgano ciò che quelle possibilità hanno in comune, nel ricercare controesempi delle conclusioni. E abbiamo bisogno di più immaginazione per vedere, con l’occhio della mente, ciò che è possibile” (p. 398, Johnson-Laird 2008). Ma siamo già oltre la scienza e più nella fantascienza.

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